Archivi categoria: Raccontare

Pezzi di scrittura e sguardi. In cammino.

Ci vorrebbe il mare

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Ci vorrebbe il mare per non ascoltare
tutte le immagini che spostano la polvere
che stava sotto il tappeto.
Ci vorrebbe il mare per riuscire a sentire
quanto male fa.

Ci vorrebbe il mare.
E ci vorrebbe il sostare, accanto
a scambiarsi l’idea che va bene così,
con i difetti, i limiti e tutto il resto.
Che non è come siamo a fare la differenza,
è come facciamo essere
chi ci sta accanto. Chi ci scegliamo
accanto.

Ci vorrebbe ancora quella riva, e quel guardare lontano,
a ricordare che il verbo essere funziona
solo al plurale. E che siamo responsabili della felicità
dell’altro.

Oltre il fondo

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Abbiamo rabbia e vuoto da smaltire.
Polvere e desideri da mischiare.
Abbiamo cerotti da togliere, ferite da lasciar guarire, dolori da ascoltare.
Abbiamo sorrisi: da diluire, da scegliere, strade in cui inciampare.
Possiamo fare da soli, o camminare insieme. Possiamo tenerci le mani o starci accanto.

Possiamo
essere felici.

Oppure no – contare i doni mancati, gli abbracci assenti, gli sguardi interrotti, le colpe contate, dimenticarsi di respirare: possiamo continuare a farci mangiare da ciò che giace oltre il fondo. Indietro. Prima.

Ci sono viaggi da fare con bagagli leggeri, ripetere gli stessi passi per non tornare. Per scegliere la stella da seguire. Sognare un’altra storia possibile.

Sguardo

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C’ho un tappo di sughero nuovo di zecca
In fondo alla gola. Vicino al cuore.
Credo si chiami
abitudine.

E’ quella cosa per cui ti costringo
ad ascoltare silenzi.
Ma tu li riempi
imperterrito col tuo secchio di fatti. E io
ringrazio te che pazientemente aspetti
il giorno in cui la smetterò di soffocare
e inizierò a raccontarmi.
Dall’inizio.
Piano.

Leggera.

21 novembre 2011, tra le bozze

317 km

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Gli occhiali stavano insieme con lo scotch, il ginocchio con un elastico rosa. 
Non c’era ansia, paura o attesa, solo la certezza delle cose belle.
É il cammino che ti insegna a camminare, ci dicevamo passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, tra stanchezza, entusiasmo, ricordi, pensieri, assenze, persone, pezzi di mondo, sigari, dolori, torte e vestiti da lavare.
Quando cammini così tanto nelle stesse scarpe e con lo stesso zaino insieme ad altre cinque persone, tre sono gli elementi che scopri della vita.

Uno: l’importante é il viaggio, non la meta.
Due, che sei capace di essere felice.
Tre. La fatica aiuta a crescere.

  

Santiago, 729 giorni e centinaia di chilometri dopo. 

Bicicletta

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Ha preso in mano la bicicletta. Se ne è uscita dal cancello e ha cominciato a pedalare, piano.
Non te l’aspetteresti da una incazzata un’uscita così, lenta. Da una incazzata di aspetti la fuga, a pedalate veloci, ti aspetti che ci metta tutta l’energia che ha in corpo, e anche parte di quella che non c’è

[..]

Pensieri di carta

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La voce si blocca tutta in fondo alla gola. All’inizio dei polmoni. Se respiri è perché grazie al cielo hai un corpo, non di certo perché te lo sei ricordato.

  • Diventare grande
  • Laurearsi
  • Lavorare
  • Amarsi
  • Costruire

Come le racconti tutte queste cose, messe insieme?
Non le racconti.
Inchiodano. E amen.

Luce

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Nel silenzio della macchina, sulla strada di casa, lo sguardo coglie una luce strana, gettata da un sole al tramonto sulle cime appena innevate. All’orizzonte. Verso nord, dietro a tutta questa strada che ben conosciamo.
Solo una macchia, lontana da questo manto di nuvole grige che nascondendo un temporale sovrastano passi lenti e ombrelli aperti.
Un orizzonte acceso, sfumato di rosso, del tutto insensato. Fuoriposto.
Gli occhi saltellano tra gli alberi spogli che a tratti si sostituiscono alla neve che splende.
“Assenza che si trasforma in testimonianza, sconforto che fiorisce in gratitudine, dolore che muta in desiderio. Di raccogliere un esempio, di continuarne i passi.”
La macchina continua sulla sua strada, la radio si sintonizza su alcune note, torna silenziosa, il telefono vibra, si accendono le luci nelle città accanto: scende la sera. E non importa che razza di giorno viene a spegnere, scende e basta.
Spegne il mondo, accende il cielo.

Ascoltare

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Ti voglio bene, e a volte mi ritrovo con un mucchio di cose da dirti che però non ti dico mai. Me le dimentico, e le ritrovo in giro per la testa tempo dopo.
È stato divertente oggi al lavoro, è familiare e girano tante persone diverse. Mi sono piaciute la frenesia, le storie incontrate. Credo di essere in un certo qual modo fatta per le storie.
Io le so leggere le persone, come so leggere i libri, solo che non se lo raccontare, così come non so mai cosa caspita rispondere alla domanda di cosa parla questo libro? Com’è?.. non so che dire, da dove cominciare, come faccio a spiegartelo di cosa parla? Parla e.. e basta. Sarà anche di dieci pagine ma parla del mondo e il mondo è una cosa immensa, come faccio a dirti tutto quello che ho capito con questo libro, come faccio a dirti che in realtà, forse, è di me che non so parlare.
Con te però è più facile, magari riesco anche a raccontare dei libri, a te. O delle persone che incontro. Credo che ci voglia tempo, ed esercizio.
Te l’ho detto che ti voglio bene?

[aprile 2012, all’inizio, in un messaggio]

Maschere

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La mattina si sveglia con le coperte ancora legate alla pancia. La boule appallottolata, i capelli arruffati.
Sente la nausea salire insieme alle palpebre che piano fanno entrare aria e luce. Già se le vede, sulla panca bianca, insieme alle stelle appiccicate anni fa, di quelle che si illuminano al buio, con qualche angolo in meno.
Sono disposte una accanto all’altra, una sfilata pronta per il carnevale. Se le mette tutte in borsa, le maschere. Non le stelle. Quelle rimangono appiccicate agli occhi, insieme ai desideri disegnati la sera, prima di addormentarsi.
Un doccia, un vestito nuovo. Un bicchiere d’arancia.

Buongiorno mondo.
Buongiorno a te, con che ruolo iniziamo oggi?

[…]

La notte di Santa Lucia

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Preparavi le tazzine con un goccio di caffè, il cucchiaio sporco. Il bicchiere vuoto.
Suonavi il campanello, curavi il nascondiglio dei giochi.
Me ne andavo a letto immaginandoti seduta al tavolo della cucina, la stufa accesa, a chiacchierare con lei. Tendevo l’orecchio, per riuscire a sentire se era arrivata, stando però ben nascosta nel piumone.

Secondo me, in un qualche modo, c’hai parlato per davvero con lei, passandole in piedi quelle notti, sveglia e allerta.
Era il tuo compleanno questa notte, [..]

Ricominciare

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Li hanno fatti a tempo determinato i momenti.
Appiccicandoci sempre un dopo, però.
Secondi, minuti e ore. Eterno ritorno di giorni e notti che si alternano.
Il lunedì mattina, il primo del mese, il primo dell’anno. Ogni anno. Mai gli stessi.

Sembriamo fatti apposta per poter ricominciare.
Creare,
andando a capo.

Il primo di novembre

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Era una signora dai capelli scoloriti. Camminava concentrata, appesa ad un bastone, sul ciglio della strada. Un po’ troppo in qua per volanti distratti.
Con la mano destra trascinava una di quelle borse con le ruote appiccicate, verde come la sua giaccavento aperta: portava un grande vaso di fiori, dei crisantemi gialli. Una macchia stonata in mezzo a tutto questo autunno.

Non so per chi fossero quegli occhi che si portava dietro, forse per il marito ho pensato. Sicuramente per qualcuno che ama.
Non la fai tanta fatica altrimenti.
Che poi in realtà quegli occhi non glieli ho proprio visti, l’ho sfiorata passando per la stessa strada, nella stessa direzione. C’aveva tutta quella concentrazione addosso, come quando stai salendo in montagna e sai che non ce la fai, non hai le forze.. ma vuoi arrivare. Devi arrivarci.
C’aveva quella forza, con quei fiori, l’amore e tutto il resto..

Sacchetto di carta

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Luce.

– A me mi piace andare in giro con un sacchetto in testa, di quelli di carta, che si vedono nei film americani, tutti marroncini e squadrati. Che poi, mi sono sempre chiesta come caspita fanno a farci la spesa con quei cosi, che se li devono portare tutti in braccio. Noi qui in Italia con le maniglie invece siamo più furbi: ci metti dentro la roba, li prendi tutti insieme.. ti fanno un male cane ma ci stanno, senza cadere. Puoi anche attaccarti alle maniglie nel frattempo. Comunque.
– …
– Che dici?
– …
– Ci puoi disegnare qualcosa sopra, se vuoi. Io ci voglio due buchi, qui. Così posso guardare fuori, eh?
– …
– Senza che nessuno ci guardi dentro, così.
– …
– …
– …
– Tu dici che è troppo facile, vero?
– …
– …
– …
– Io dico.. che senza, è troppo difficile.

Buio.

Oggi indosso la giacca dell’anno scorso

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Siamo
esperti
traslocatori.
Passiamo le giornate a mettere
in ordine
pezzi di noi negli altri:
li riponiamo lì, con estrema cura ed efficacia,
con incondizionata fatica.
Senza nemmeno accorgercene.

Poi, una mattina, succede
che ci svegliamo e non ci troviamo.
Nemmeno a cacciarsi due dita
nel cuore per vomitare:
non c’è verso di
riconoscersi,
da quella mattina.

Vecchie stazioni inchiodate alla campagna

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È facile per una bicicletta incuriosire la gente, basta scivolare di sera con qualcuno in sella su strade che non portano in nessun posto. La guardano tutti, quella bici, chiedendosi dov’è che andrà a finire tutta sola. Magari vuole andarsi a buttare sotto il treno, Si certo, guarda che la gente mica le fa questa cose, Beh, cos’altro c’è in fondo a questa strada, se non il treno?

Io volevo solo andarlo a vedere questo treno. Cioè in realtà erano le rotaie che volevo vedere. Salirci in groppa e osservare dove andavano a perdersi.
Ti sembra sempre di vederci un inizio là in fondo.

Banalità

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Te li sei lavati i denti?
Eh?
Stamattina, dico. Te li sei lavati i denti?
Jac no, non ricominciare.
Te li sei lavati o no, Tod. Guarda che se non rispondi è
Cristo, Jac…
Senti qui Mel, non se lo ricorda.
.. Non ricominciare ho detto!
Allora Tod, te li sei lavati i denti?
Non ci gioco ai tuoi giri di parole Tod. Lo sai.
Finiscila Jac. Qual è la domanda?
Te li sei lavato i denti, stamattina?
Si Tod, me li sono lavati.
Vedi Jac, non è difficile, lui risponde.
Cristo.
Rispondi Jac. Qual è il problema?
Mel, non ti ci mettetere.
Rispondi Jac.


..
Si Tod, me li sono lavati. I denti.


Grazie Jac. Grazie.

L’università e i pantaloni della tuta blu

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Luce del mattino, stanchezza della notte. La colazione gironzola per lo stomaco e le porte della carrozza del treno dondolano al passaggio di studenti e zaini in spalla.
Mai capito perché, coi lavoratori, quelle porte si aprono in un altro modo. Bah.
Fatto sta che stamattina c’è un tizio, padre di famiglia – abita da Castelleone in poi perché parla di un paese che non conosco, ha un bimbo e ne aspetta un’altra. No, forse è l’amico che aspetta, questo invece la bimba ce l’ha già. Ok, non è importante. E’ che ce l’hanno raccontata tutta, la loro storia. Io non lo so come faccia la gente, si dice due episodi, così, per far passare il viaggio. Due chiacchere banali, tra pendolari, alle otto di mattina: figli, mogli, casa… e intanto ti raccontato tutta la loro storia. Tutta. Io non lo so come facciano – e uno studente, che a un certo punto passa, assonnato alla ricerca di un posto. Il tizio lo guarda, tutto: dall’alto al basso, da destra a sinistra. E dice questa cosa qua: “Io non so. Ai mie tempi mica si andava coi pantaloni della tuta in università”.

Mi ci è voluto tempo per capirla, quella frase. Ma alla fine c’ho trovato dentro un’alta critica sociologica.
“Ai suoi tempi” l’università era una cosa seria e importante, mica ci potevi andare con i pantaloni della tuta. Oggi noi c’andiamo con la tuta, le ciabatte e le magliette dei concerti.
Ma mica lo sappiamo quanto siamo fortunati.

Al lupo, al lupo!

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La nonna c’aveva tutte queste storie chiuse nelle borse degli occhi.
Tu facevi un qualsiasi dispetto, un gioco, sbagliavi una parola, non so.
Lei ti coglieva, si avvicinava, e ti raccontava una storia.
A bassa voce. Piano. E poi,
se ne andava. Ti lasciava lì col tuo pensiero a mezz’aria, col senso di colpa e la netta sensazione di essere nel mentre di un errore, di una cosa sbagliata:
“e se succede anche a me?”.
Allora la smettevi, di fare qualsiasi dispetto, gioco o parola tu stessi facendo.
E la nonna si allontanava, piano.

Un pastorello conduceva ogni giorno le sue pecorelle a pascolare.
Si annoiava molto e così decise di fare uno scherzo a tutta la gente del villaggio.
– Aiuto.. al lupo al lupo. Cominciò allora agridare con quanto fiato aveva in gola
Tutti i contadini accorsero armati di forconi e randelli, ma quando arrivarono nel grande prato non videro neanche l’ombra del lupo. Il pastorello rideva a crepapelle:
– Era solo uno scherzo e voi ci siete cascati!
Qualche giorno dopo ripeté lo stesso e i contadini allarmati giunsero di corsa la prato.
Presto si accorsero che il pastorello si era giocato un’altra volta di loro.
Un giorno arrivò d’improvviso un intero branco di lupi; il pastorello cominciò a gridare disperatamente:
– Al lupo, al lupo!
Ma i contadini, credendo a un altro scherzo, non si mossero più. Indisturbati, i lupi, fecero strage di pecore e agnelli.

[Esopo, Lo scherzo del pastore]

Accordi scordati

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Metropolitana delle dieci.
Si infila la realtà armonica di accordi stonati, senza pagare il biglietto,
che tanto glielo paghi tu.
Sete di aria e di vuoto, di silenzio e spazio: lui sale puzzolente e tremante, con un violino scocciato tra le mani nere. Aspetta
che le porte si chiudano e tutti si siedano. Come fosse dietro le quinte
apre il sipario trasparente, si inchina, avanza. Tra un buongiorno e un sorriso.
“Non voglio disturbare, spero di allietarvi.”
Dice, una timida voce che sembra nascondersi tra i vestiti, dal pubblico maleducato che nemmeno l’ascolta. Nemmeno la guarda quella voce.
Inclina la testa, si scusa: mai visto un’artista disturbare, io.

[..]

Un “Grazie” gli declina la testa, lascia cadere le braccia, sorride.
Prende il cappello. Nessuno lo guarda.

Se ne va.

L’attesa

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Era una macchina tarchiata, di quel blu cielo d’inverno che esiste solo nei film di fantascienza. Aveva un retrogusto di coriandolo al suo interno, e dei pezzi di cuore incastrati tra i sedili. In realtà i pezzi di cuore non li vedevi, ma se conoscevi la sua storia riuscivi percepirne i respiri tra un giro di motore e l’altro.
Alle cinque e dodici minuti la macchina tarchiata blu cielo d’inverno si piazza tra un campo e l’altro, stagliandosi contro la notte insieme ai rami degli alberi. Scendono in tre, dalla macchina tarchiata blu cielo d’inverno: un ragazzo, una ragazza. E una coperta. Arancione. La coperta, color caco. Per l’esattezza.
Nel dettaglio la coperta era aggrappata alla ragazza coll’astuto compito di scaldare quel corpo che non aveva nessun tipo di familiarità col proprio calore. Succede a volte, a chi ha l’abitudine di

                                                                                                                                                                                                   non trovare bene le parole. Era questo il problema fondamentale del momento. Non sapeva nemmeno cosa cacchio ci facesse lì in mezzo ad una campagna che si sentiva nuda senza la solita nebbia invernale. Non c’erano neppure le nuvole.
– Cofano o tetto?
– Tetto, sul cofano si scivola.
– Ce la fai a salire?
– Ovvio, ho un metodo. Da piccola passavo i pomeriggi sul tetto della macchina.
– ..
-..
-..
– Mi piaceva stare in alto.
– ..
– Ecco, magari dovevo portare una coperta meno ingombrate. Ecco, ce l’ho fatta.
– ..
– ..
– ..
– Non sali?
– Si si.
– ..
– Arrivo.

Si dice siano rimasti seduti sul tetto della macchina tarchiata per tutta la notte. O per lo meno, per quello che della notte ne era rimasto.
Si vedevano lì, tutti e tre sul tetto. Sembrava tutto un po’ mischiato: loro, la macchina, la notte.
Si dice siano rimasti lì come in attesa di qualcosa. Loro dicevano che ci erano andati per aspettare l’alba. Io non ci credo tanto, perché non te ne stai lì tutta la notte quando sai perfettamente che l’alba succede solo ad una certa ora. Secondo me erano lì ad aspettare e basta.
Scusa, prova a pensarci: era il primo mattino dell’anno. Cos’altro vuoi fare il primo mattino dell’anno, se non aspettare?