Luce del mattino, stanchezza della notte. La colazione gironzola per lo stomaco e le porte della carrozza del treno dondolano al passaggio di studenti e zaini in spalla.
Mai capito perché, coi lavoratori, quelle porte si aprono in un altro modo. Bah.
Fatto sta che stamattina c’è un tizio, padre di famiglia – abita da Castelleone in poi perché parla di un paese che non conosco, ha un bimbo e ne aspetta un’altra. No, forse è l’amico che aspetta, questo invece la bimba ce l’ha già. Ok, non è importante. E’ che ce l’hanno raccontata tutta, la loro storia. Io non lo so come faccia la gente, si dice due episodi, così, per far passare il viaggio. Due chiacchere banali, tra pendolari, alle otto di mattina: figli, mogli, casa… e intanto ti raccontato tutta la loro storia. Tutta. Io non lo so come facciano – e uno studente, che a un certo punto passa, assonnato alla ricerca di un posto. Il tizio lo guarda, tutto: dall’alto al basso, da destra a sinistra. E dice questa cosa qua: “Io non so. Ai mie tempi mica si andava coi pantaloni della tuta in università”.
Mi ci è voluto tempo per capirla, quella frase. Ma alla fine c’ho trovato dentro un’alta critica sociologica.
“Ai suoi tempi” l’università era una cosa seria e importante, mica ci potevi andare con i pantaloni della tuta. Oggi noi c’andiamo con la tuta, le ciabatte e le magliette dei concerti.
Ma mica lo sappiamo quanto siamo fortunati.