Archivi categoria: Camminando

Pezzi di chilometri percorsi, storie incrociate, passi osservati.

Proprio come questo

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I’ve been reading books of old, the legends and the myths:
Achilles and his gold, Hercules and his gifts,
Spiderman’s control and Batman with his fists.
And clearly I don’t see myself upon that list.

She said “Where’d you wanna go? How much you wanna risk?
I’m not looking for somebody with some superhuman gifts:
some superhero, some fairytale bliss.
Just something I can turn to,
somebody I can kiss”.

The Chainsmokers & Coldplay, Something just like this

Narrazione

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L’uomo, se mi consentite di suggerire una definizione, è l’animale che racconta la storia. Ovunque vada, vuole lasciare dietro di sé non una caotica scia, non uno spazio vuoto, ma le rassicuranti boe e pietre miliari della storia. Fin quando c’è storia tutto va bene. Anche nei suoi ultimi attimi, a quanto si dice, nella frazione di secondo della fatale caduta, o quando sta per annegare, l’uomo vede passare rapidamente davanti a sé la storia di tutta la sua vita.
 
Graham Swift, Il paese dell’acqua

Il primo giorno dell’anno

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E’ l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza. Oppure l’amore è una piacevole sensazione, qualcosa in cui imbattersi è questione di fortuna? Questo volumetto contempla la prima ipotesi, mentre è fuor di dubbio che oggi si crede alla seconda. La gente non pensa che l’amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d’amore, felice o infelice, ascolta canzoni d’amore; eppure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare, in materia d’amore. Questo atteggiamento si basa su parecchie premesse: la maggior parte della gente ritiene che amore significhi “essere amati”, anziché amare; di conseguenza, per loro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade. 

Tratto da L’arte di amare, Erich Fromm.

A ciascuno il suo. Per me settembre é il primo mese dell’anno.
É un ricominciare, di nuovo, a capo.

E dev’esserci acqua che piove per questo fiume che porta al mare

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C’è una riva per ogni mare, un mare per ogni riva.
C’è una luce per ogni ombra che ti segue istintiva.
C’è una strada che non conosci,
un temporale che non aspettavi:
per ogni dubbio c’è una porta chiusa, per ogni porta le sue chiavi.
C’è un desiderio per ogni stella,
ma alla tua stella non puoi chieder perché.

Lo specchio ti riflette, Nomadi.

Nuvola temporale

Titolo: Sulla strada, Francesco De Gregori.

Tempesta

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[..]
A mia volta mi lascio un pò stare
e mi faccio un periodo di mare,
che a mia volta non é che mi cerco.
Che poi non si sa cosa posso trovare da me.

La linea sottile fra il tuo bene e il tuo male,
la linea sottile fra dormire e sognare.
C’é una linea sottile tra aspettare e scoppiare:
cosa pensi di fare? Da che parte vuoi stare?

 

Tratto da La linea sottile, Luciano Ligabue.

Supereroi

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Dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana.

Tratto da Kill Bill Vol. II.
Scoperte e riflessioni mattutine, la radio che racconta.
Un Fabio Volo che dite come volete, ma a me, la mattina, mette di buon umore.

Tac.

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– Voi credete che io sia pazzo?
– No.
Bartleboom le ha raccontato tutta la storia. Le lettere, la scatola di mogano, la donna che aspetta. Tutto.
– Non l’avevo mai raccontata a nessuno.
Silenzio. Sera. Ann Deverià. I capelli sciolti. Una lunga camicia da notte bianca fino ai piedi. La sua stanza. La luce che oscilla sulle pareti.
– Perché a me Bartleboom?
Si tortura l’orlo della giacca, il professore. Non è facile.
Niente facile.
– Perché ho bisogno che voi mi aiutate.
– Io?
– Voi?
Uno si costruisce grandi storie, questo è il fatto, e può andare avanti a crederci, non importa quanto pazze sono, e inverosimili, se le porta addosso, e basta. Si è anche felici, di cose del genere. Felici. E potrebbe non finire mai. Poi, un giorno, succede che si rompe qualcosa, nel cuore del gran marchingegno fantastico, tac, senza nessuna ragione, si rompe d’improvviso e tu rimani lì, senza capire come mai tutta quella favolosa storia non ce l’hai più addosso, ma davanti, come fosse la follia di un altro, e quell’altro sei tu. Tac. Alle volte basta un niente. Anche solo una domanda che affiora. Basta quello.
– Madame Deverià… io come farò a riconoscerla, quella donna, la mia, quando la incontrerò?
Anche solo una domanda elementare che affiora dalle tane sotterranee in cui la si era sepolta. Basta quello.
– Come farò a riconoscerla, quando la incontrerò?
Già.
– Ma in tutti questi anni non ve lo siete mai domandato?

[Alessandro Baricco, Oceano mare]

Qualcuno

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Signore, quando ho fame,
mandami qualcuno da sfamare.
Quando ho sete,
mandami qualcuno da dissetare.
Quando ho freddo,
mandami qualcuno da scaldare.
Quando sono triste,
mandami qualcuno da consolare.
Quando sono povero,
mandami qualcuno più povero di me.
Quando non ho tempo,
mandami qualcuno da ascoltare.
Quando mi sento incompreso,
mandami qualcuno da abbracciare.
Quando sono scoraggiato,
mandami qualcuno da incoraggiare.
Quando sono umiliato,
mandami qualcuno da lodare.

Quando non mi sento amato,
mandami qualcuno da amare.

Madre Teresa di Calcutta

Responsibility

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– Figuriamoci.
– Che succede?
– Mai una volta che rispondano.
– Loro?
– Già. E ora che faccio?
– Beh adesso puoi scegliere tu.
– Io?
– Si. Tu.
– Ma io non lo so.
– Lo sai.
– Non lo so. Come cacchio faccio a saperlo?
– Beh pensaci. Secondo te cosa è meglio?
– …
– Senti, adesso sei tu il loro punto di riferimento. E’ a te che si rivolgono, è da te che aspettano risposte.
– Oh. (Abbassa lo sguardo, placida)
– …
– …
– …
(Scatta la testa, si rialza) E il mio? Chi è il mio punto di riferimento, adesso? A chi chiedo io?

This time for Africa

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Pezzi di stella, pezzi di costellazione
Pezzi d’amore eterno, pezzi di stagione
Pezzi di occhi che si guardano indietro
Pezzi di carne, pezzi di carbone
Pezzi di sorriso, pezzi di canzone
Pezzi di parola, pezzi di Parlamento
Pezzi di strada, pezzi di bella città
Pezzi di marciapiedi, pezzi di pubblicità
Pezzi di cuori, pezzi di fedi
Pezzi di chilometri e pezzi di metri
Pezzi di come, pezzi di così
Pezzi di lacrime e pezzi di persone
Pezzi di pericolo, pezzi di coraggio
Pezzi di vita che diventano viaggio
Pezzi di bene dentro a pezzi di male
Pezzi di velocità lungo pezzi d’asfalto
Pezzi di briciole, pezzi di vetrina
Pezzi di emozione che non si interrompe
Pezzi di maggioranza, pezzi di opposizione
Pezzi di speranza e pezzi di informazione
Pezzi di deserto, pezzi di frumento

Chiudi la porta e vai in Africa, Celestino!

Francesco De Gregori, Vai in Africa, Celestino!

Tra brandelli di cielo I

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– Ora senta un pò che bizzaria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebe? Dica lei.
– Non saprei – risposi stringendomi ne le spalle.
– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
– E perchè?
– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli cn smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
E se ne andò, ciabattando.

Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal.

Gli uomini hanno case, ma sono verande

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Così un giorno, mentre stava facendo lezione davanti a un centinaio di studenti, nell’aula 11, vide aprirsi la porta ed entrare quella ragazza.
– È lei il prof. Michael Bandini?
– Si, perché?
Shatzy sventolò il ritaglio del giornale.
– È lei che vende una roulotte usata, modello Pagode, del ’71, discrete condizioni, prezzo trattabile, no permuta?
Senza capire bene perché, il prof. Bandini si vergognò come se gli stessero riportando un ombrello dimenticato in un cinema porno.
– Si sono io.
– Si può vedere?, la roulotte, dico, si può vedere?
– Sto facendo lezione, signorina.
Shatzy sembrò accorgersi solo in quel momento degli studenti che riempivano l’aula.
– Oh.
– Le spiace tornare più tardi?
– Certo, mi scusi, posso aspettare un po’, magari mi siedo qua, le spiace?, capace che imparo anche qualcosa di buono.
– Prego.
– Grazie.
Il prof. Bandini pensò che il mondo era pieno di pazzi. Poi continuò da dove aveva interrotto.
Di solito – disse – il porch, o “veranda”, è collocato sulla parete frontale della casa. È costituito da una tettoia di profondità variabile – ma di rado superiore ai quattro metri – che poggia su una serie di montanti e copre un assito la cui sopraelevazione rispetto al suolo oscilla generalmente tra i venti centimetrati e il metro e mezzo. Una ringhiera e i necessari gradini di accesso ne completano il profilo. Da un punto di vista puramente architettonico il porch rappresenta uno sviluppo abbastanza elementare dell’idea classica di facciata, espressione di una povertà abbiente, e di un lusso rudimentale, primitivo. Da un punto di vista psicologico, se non morale, si tratta invece di un fenomeno che mi fa sbiellare e che risulta, a un’attenta analisi, commovente, ma anche ripugnante e in definitiva, epifanico. Da epiphàneia, greco: rivelazione.
Shatzy approvò con un leggero cenno del capo. Nel West, in effetti, quasi tutti avevano una veranda davanti a casa.
L’anomalia del porch – continuò il prof. Bandini – è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In un certo modo, rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia ancora non si è estinta nella minaccia del fuori. È una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a testimoniare e realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa sua identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine.
In privato il prof. Bandini riassumeva questo suo ragionamento con un’espressione che riteneva imprudente usare in pubblico, ma che considerava felicemente sintetica. “Gli uomini hanno case: ma sono verande.” Una volta aveva provato ad enunciarla alla moglie, e la moglie aveva riso fino a starne male. La cosa l’aveva piuttosto colpito. In seguito la moglie l’aveva lasciato per andare a vivere con una traduttrice di ventidue anni più vecchia di lei.
È curioso, tuttavia – proseguì il prof. Bandini – come questo statuto di “luogo debole” si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini. Su una veranda, l’uomo medio dimora spalle alla casa, seduto, e per lo più seduto su una sedia provvista di apposito meccanismo atto a farla dondolare. Talvolta, componendo il quadro nella sua più accecante esattezza, l’uomo tiene in grembo un fucile carico. Sempre, guarda davanti a sé. Se ora voi ritornate a quell’immagine di precarietà che era il porch inteso come semplice oggetto architettonico, e la arricchite della presenza di quell’uomo – spalle alla casa, basculante sulla sua sedia a dondolo, con un fucile carico in grembo – quell’immagine virerà sensibilmente verso un senso di forza, sicurezza, determinazione. Si potrebbe dire addirittura che quel porch cessa di essere un’eco fragile della casa a cui si appoggia, e diventa validazione finale di ciò che la casa appena accenna: sensazione definitiva del luogo protetto, soluzione del teorema che la casa si limita ad enunciare.
A Shatzy piacque particolarmente il dettaglio del fucile carico.
In definitiva – proseguì il prof. Bandini – quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente. Di più: quell’icona celebra la pretesa dell’umano essere in grado di difendere quel luogo, con le armi di una metodica viltà (il basculare della sedia a dondolo) o di un attrezzato coraggio (il fucile carico). Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.
Era una cosa a cui il prof. Bandini credeva, al di là di qualsiasi necessità accademica – lui, semplicemente, credeva che le cose stessero esattamente così, lo credeva anche quando era in bagno. Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l’unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dall’ondata dell’Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente sì affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là dove solo le è dato di arrestare l’invasione del mondo, salvando quanto meno l’idea di una propria casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava. Guardava gli uomini e nelle loro commoventi menzogne sentiva lo scricchiolio della sedia a dondolo sulle assi impolverate del porch; ed erano, per lui, buffi fucili carichi le impennate di orgoglio e di penosa autoaffermazione in cui vedeva, negli altri e in se stesso, occultare il verdetto di un esilio perenne. Era una faccenda tristissima, a ben pensarci, ma anche commovente perché, alla fine, il prof. Bandini sapeva di provare affetto per sé e per tutti gli altri, e compassione per tutte le verande da cui si vedeva circondato

c’era qualcosa di infinitamente dignitoso in quell’indugiare eterno davanti alla soglia di casa, un passo prima di se stessi

le notti in cui si alza il vento feroce della verità, la mattina dopo sei costretto a riparare la tettoia delle tue menzogne, con pazienza inossidabile, ma quando il mio amore tornerà sarà di nuovo tutto a posto, guarderemo il tramonto insieme bevendo acqua colorata
o quando qualcuno, sfinito, ti chiedeva di sederti davanti a lui e ti apriva la sua mente, tirando fuori tutto, davvero tutto, perfino lì quello che capivi è che eravate seduti sulla veranda, ma in casa non ti aveva fatto entrare, in casa non ci entrava da anni, ormai e questa era la paradossale ragione per cui era sfinito, lui, lì davanti a te

quelle sere in cui l’aria è fredda e il mondo sembra essersi assentato, d’improvviso ti senti comico, lì sulla veranda, a fare la guardia contro nessun nemico, dopo anni di menzogne, di simulazioni, rientri a casa sapendo che magari nemmeno ti riuscirà di orientarti, là dentro, come se fosse la casa di un altro e invece era la tua, lo è ancora, apri la porta ed entri, curiosa felicità che non ricordavi, casa tua, dio che meraviglia, che grembo, questo tepore, la pace, me stesso, alla fine, non uscirò mai più da qui, poso il fucile nell’angolo e imparo di nuovo la forma degli oggetti e le figure dello spazio, mi riabituo alla geografia dimenticata della verità, imparerò a muovermi senza rompere niente, quando qualcuno busserà alla porta la aprirò, quando sarà estate spalancherò le finestre, sarò in questa casa fino a quando sarò, MA

MA se tu aspetti, e da fuori guardi quella casa, potrà passare un’ora o una giornata intera, MA alla fine tu vedrai la porta aprirsi, senza sapere né poter capire, mai, cosa può essere successo là dentro, vedrai la porta aprirsi e lentamente quell’uomo, uscire, invisibilmente spinto fuori da qualcosa che non potrai sapere, MA certo deve avere a che fare con qualche vertiginosa paura, o incapacità, o condanna, tanto spietata da spingere quell’uomo fuori, sulla sua veranda, il fucile in mano, io adoro

io adoro quell’istante – diceva il prof. Bandini – l’istante preciso in cui lui ancora fa un passo, con il fucile in mano, guarda il mondo davanti, sente l’aria pungente addosso, si alza il bavero della giacca, e poi – meraviglia – torna a sedersi sulla sua sedia e appoggia la schiena la rimette in movimento, dondolio mite che si era addormentato, rassicurante rollio della menzogna, adesso culla la serenità di nuovo ritrovata, la pace dei vili, l’unica che ci spetti, passa la gente e saluta, Ehi Jack, dov’eri finito? Niente, niente, sono qua adesso, In gamba Jack, una mano accarezza il calcio del fucile, lui guarda lontano, stringendo un po’ gli occhi, quanta luce, mondo di quanta luce hai bisogno, a me bastava una fiamma da nulla, là dentro, quando?, non ricordo quando, MA era un posto a cui ho detto addio, e poi più niente, non ne parlerà mai più, per sempre a dondolare sulla sua veranda di legno e vernice

se ci pensi, pensa le case vuote, a centinaia, dietro la faccia della gente, alle spalle di ogni veranda, migliaia di case perfettamente in ordine, e vuote, pensa l’aria, là dentro, i colori,. Gli oggetti, la luce che cambia, tutto accade per nessuno, luoghi orfani, loro che sarebbero I LUOGHI, gli unici veri, ma quella curiosa urbanistica del destino li ha immaginati come tarlature del mondo, incavi abbandonati sotto la superficie della coscienza, se ci pensi, che mistero, che ne è di loro, dei luoghi veri, del mio luogo vero, dove sono finito IO mentre ero qui a difendermi, non ti succede mai di chiedertelo?, chissà come sto, IO?, mentre sei lì a dondolare, a riparare pezzi di tetto, a lucidare il tuo fucile, a salutare quelli che passano, di colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO?, vorrei sapere solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio, qualcuno sa se sono VIVO?
Shatzy su avvicinò alla cattedra. Gli studenti se ne stavano uscendo e il prof. Bandini era in piedi, che sistemava le sue cose nella cartella.
– Niente male la sua lezione.
– Grazie.
– Dico sul serio. C’era un sacco di roba interessante.
– La ringrazio.
– Sa cosa mi ha fatto venire in mente?
– No.
– Ecco, ho pensato, guarda te, quel professore ha maledettamente ragione, voglio dire, le cose vanno proprio così, gli uomini hanno delle case, ma in realtà sono delle verande, non so se mi spiego, hanno delle case, però loro sono…
– Come ha detto?
– Quando?
– Adesso, quella storia delle case.
– Non so, cosa ho detto?
– Ha detto quella frase?
– Quale frase?

Alessandro Baricco, City.

Nel numero 2011 c’è scritto un IO al contrario

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Io sono
Io sei
Io è
Io siamo
Io siete
Io sono

Se vuoi sopravvivere devi imparare a coniugare il verbo essere in questo modo.
Non è facile, a volte farlo ti costa un po’, non basta ripeterselo per 1 10 100 1000 volte fino a tatuarselo sull’anima, bisogna crederci, la cosa più difficile è crederci.
E quando ci sei riuscito puoi fare il passo seguente, imparando a coniugare il verbo amare per non limitarsi a sopravvivere, per avere successo, di modo che siano i tuoi desideri a imporre alla realtà il modo in cui dovrà evolversi.

Io mi amo
Tu mi ami
Egli mi ama
Noi mi amiamo
Voi mi amate
Essi mi amano

Juan Boniela in Io sono, io sei, io è.

Anni universitari

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“Il libro in una mano, la bomba nell’altra.”

[Voglia di anarchia,
di follia e malinconia.
Voglia di lottare
per qualcosa. O per qualcuno.
E’ uscire la sera, con le foglie al vento e le piastrelle cigolanti:
respirare aria sporca per gonfiarsi d’orgoglio.
E’ sentire che tutto,
ma proprio tutto,
è ancora possibile.]